Le intercettazioni dei parlamentari
E’ noto che un membro del Parlamento, nell’ambito di un’indagine penale, non può essere privato della libertà personale, né sottoposto a perquisizione personale o domiciliare senza l’autorizzazione della Camera di appartenenza. E’ la cosiddetta immunità parlamentare, stabilita dall’art. 68 Cost.
L’mmunità è prevista anche per le intercettazioni: il gip che, su richiesta del pm, intendesse porre sotto controllo l’utenza telefonica di un deputato o senatore indagato, deve necessariamente ottenere l’assenso della Camera dei deputati o del Senato. Senza tale autorizzazione, l’intercettazione non può essere eseguita. Nell’eventualità in cui la Camera di appartenenza dovesse autorizzare le intercettazioni, una volta eseguite i relativi verbali verranno depositati presso la segreteria del pm in visione alle parti e ai difensori, che potranno renderli pubblici.
Ci si chiede che valore può avere, ai fini della cronaca, l’eventuale intercettazione disposta dalla magistratura ai danni di un parlamentare senza la prescritta autorizzazione. Questo valore è pari a zero. L’autorizzazione della Camera va considerata quale condizione essenziale perché l’atto di intercettazione del giudice possa considerarsi esistente, quindi fonte e il relativo contenuto notizia. Qui si è di fronte ad una fattispecie analoga a quella dell’intercettazione non eseguita dalla magistratura, carpita con strumenti illegali.
Del resto, la conclusione è coerente con il sistema di equilibrio tra i poteri dello Stato così come delineato dalla Costituzione, nonché con il valore che la stessa Costituzione attribuisce alla volontà popolare. Va infatti considerato il fine cui tende l’immunità prevista dall’art. 68 Cost.: garantire al parlamentare l’autonomia che gli deriva dall’essere stato scelto dal corpo elettorale per la gestione della cosa pubblica. La magistratura necessita del consenso della Camera di appartenenza del parlamentare per l’adozione di misure gravi come l’arresto, le perquisizioni, le intercettazioni, perché con esse, dato il loro carattere invasivo, la magistratura può interferire con la sovranità popolare (esercitata a norma dell’art. 1 Cost. proprio attraverso i parlamentari liberamente eletti) in quanto misure potenzialmente idonee ad ostacolare l’esercizio delle funzioni che gli elettori hanno loro affidato. E sono gli elettori stessi che devono acconsentire all’adozione di quelle misure (quindi alla potenziale limitazione di sovranità) attraverso il voto favorevole della maggioranza dei loro rappresentanti.
Tuttavia, l’ipotesi più diffusa è un’altra. Accade che un’intercettazione regolarmente disposta, nell’ambito di un’indagine, su una qualsiasi utenza sveli la conversazione in cui è parte un parlamentare, che non è indagato. A disciplinare questa ipotesi è una legge ordinaria: la L. 20 giugno 2003 n. 140. Ma gran parte dell'art. 6, però, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza 23 novembre 2007 n. 390. Tuttavia, per inquadrare meglio la problematica è opportuno analizzarla nel testo che vigeva prima dell'intervento della Consulta.
Secondo l’art. 6, il gip, se riteneva rilevanti le conversazioni, entro 10 giorni doveva chiedere alla Camera cui il parlamentare appartiene l’autorizzazione al loro utilizzo. In caso di rifiuto, le intercettazioni dovevano essere distrutte. Alla distruzione procedeva lo stesso gip qualora le avesse subito ritenute irrilevanti.
Ma accadeva non di rado che le conversazioni dei parlamentari finivano sui giornali prima ancora che il gip richiedesse al ramo competente del Parlamento l’autorizzazione al loro utilizzo, o addirittura quando dei relativi brani era già stata disposta la distruzione, avendo la Camera negato l’autorizzazione o essendo state ritenuti irrilevanti dallo stesso gip. Ebbene, si tratta di verificare come tali comportamenti si ponessero nei riguardi del diritto di cronaca. Vale a dire, in che termini queste irregolarità potevano arrivare a limitare il diritto alla informazione su fatti che, in considerazione delle funzioni svolte da un membro del Parlamento, spesso si rivelavano di sicuro interesse pubblico.
La risposta può essere fornita dal già visto D.L. 22 settembre 2006 n. 259, convertito in L. 20 novembre 2006 n. 281, che impone l’immediata distruzione delle intercettazioni “illegalmente acquisite” e punisce la mera detenzione del materiale nonché la sua divulgazione, prevedendo espressamente un risarcimento per i soggetti cui le conversazioni pubblicate si riferiscono. Si potrebbe sostenere che qualsiasi intercettazione riferita ad un parlamentare, essendone prevista per legge la distruzione in caso di rifiuto di autorizzazione da parte del Parlamento, avrebbe dovuto considerata come illegalmente acquisita. E l’eventuale diffusione non coperta dal diritto di cronaca.
Tuttavia, bisogna tenere conto delle diversità dei casi che nella realtà possono presentarsi, relazionando ognuno di essi al diritto della collettività all’informazione. Non va dimenticato, infatti, che l’interesse pubblico risulta ben maggiore di fronte a fatti rilevanti che coinvolgono i parlamentari, ossia i soggetti ai quali il popolo delega periodicamente, tramite il voto, l’esercizio della sovranità. In altre parole, non c’è dubbio che qui sarebbe necessaria, nei rapporti elettore parlamentare, una maggiore trasparenza. Il corpo elettorale deve poter esercitare un controllo continuo sull’operato dei propri delegati, controllo che è proprio la cronaca a permettere.
Qui va tenuta presente una circostanza. L’intercettazione che capta la conversazione di un parlamentare mentre parla con l’indagato, ossia con colui la cui utenza è stata intercettata, è comunque legittima, perché attuata a norma di legge. E’ il non preventivato inserimento del parlamentare nel traffico telefonico dell’indagato a complicare la questione, costringendo il gip ad una scelta: ritenerla rilevante e chiedere l’autorizzazione alla Camera, oppure disporne la distruzione. Ma la registrazione della conversazione cui ha preso parte il parlamentare è di per sé legittima, almeno fino a quando il gip non ne ordini la distruzione perché ritenuta irrilevante o la Camera non neghi al gip l’autorizzazione. In altre parole, fino alla distruzione o al diniego della Camera, l’intercettazione che coinvolge il parlamentare costituisce una fonte e il suo contenuto una notizia.
Con la conseguenza che qui l’eventuale diffusione della conversazione del parlamentare, se al limite può comportare in capo al giornalista il reato di “Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale” (art. 684 c.p., punito con sanzioni peraltro molto blande), è comunque coperta dal diritto di cronaca. E il parlamentare non può avanzare pretese nei riguardi del giornalista (né dell’organo di informazione), il quale dovrà fare i conti soltanto con lo Stato per il reato commesso, in presenza dei relativi presupposti. Se invece il giornalista diffonde il contenuto dell’intercettazione dopo che la Camera ha negato al gip l’autorizzazione, la diffusione non è più coperta dal diritto di cronaca, perché l’intercettazione ha perso il carattere di fonte, e il suo contenuto non può essere considerato notizia. In questo caso il parlamentare ha un potere di azione civile contro il giornalista (e contro l’organo di informazione) per il risarcimento dei danni, secondo quanto stabilisce il già visto art. 4 D.L. 22 settembre 2006 n. 259, convertito in L. 20 novembre 2006 n. 281.
La soluzione prospettata è in armonia con il sistema di equilibrio (di cui si è già detto all’inizio e che vale la pena richiamare) tra i poteri dello Stato così come delineato dalla Costituzione, nonché con il valore che la stessa Costituzione attribuisce alla volontà popolare. Va infatti considerato il fine cui tende l’immunità prevista dall’art. 68 Cost.: garantire al parlamentare l’autonomia che gli deriva dall’essere stato scelto dal corpo elettorale per la gestione della cosa pubblica. La magistratura necessita del consenso della Camera di appartenenza del parlamentare per l’adozione di misure gravi come l’arresto, le perquisizioni, le intercettazioni, perché con esse, dato il loro carattere invasivo, la magistratura può interferire con la sovranità popolare, esercitata a norma dell’art. 1 Cost. proprio attraverso i parlamentari liberamente eletti, in quanto misure potenzialmente idonee ad ostacolare l’esercizio delle funzioni che gli elettori hanno loro affidato. E sono gli elettori stessi che devono acconsentire all’adozione di quelle misure (quindi alla potenziale limitazione di sovranità) attraverso il voto favorevole della maggioranza dei loro rappresentanti.
Ma, francamente, tale interferenza non si scorge quando la magistratura capta accidentalmente una conversazione che il parlamentare tiene con terzi regolarmente indagati. Qui il contenuto dell’intercettazione non è il frutto di una interferenza della magistratura con la sovranità popolare, mancando un comportamento attivo invasivo nei riguardi del parlamentare. Tant’è che in questi casi il gip deve chiedere l’autorizzazione alla Camera soltanto per poter utilizzare (ma a fini processuali) la conversazione intercettata, sul presupposto che l’utilizzazione (a fini processuali) fa dell’intercettazione stessa, anche se accidentale, un comportamento invasivo.
Ciò significa che la conversazione deve poter essere liberamente utilizzata a fini di cronaca, se la diffusione dei fatti in essa contenuti soddisfa un interesse pubblico. Qui non sussiste il pericolo di interferenza con la sovranità popolare. Al contrario. La pubblicazione dell’intercettazione consente al corpo elettorale di esercitare un controllo su come il parlamentare utilizza quella parte di sovranità affidatagli con il voto.
Spesso accade che i parlamentari accidentalmente intercettati dalla magistratura, quando si vedono le proprie conversazioni sui giornali, si lamentano adducendo l’irrilevanza penale dei loro comportamenti, così come emersi. E’ una osservazione che parte dall’errato presupposto che il parlamentare debba stimolare l’interesse della collettività soltanto quando commette reati. Se dall’intercettazione emerge la partecipazione del parlamentare ad un’attività criminosa, ponendo il parlamentare su un piano simile a quello dell’indagato intercettato, è ovvio che l’interesse pubblico sussiste.
Ma l’interesse pubblico è collegato solo al modo in cui il parlamentare utilizza la propria funzione, che non necessariamente deve implicare la commissione di reati. In una democrazia l’utilizzo della funzione pubblica deve essere il più possibile trasparente. Di conseguenza, solo la diffusione di brani di intercettazioni contenenti fatti privati, privi di alcun collegamento obiettivo con la funzione pubblica, deve considerarsi illegittima, essendo la sfera privata del parlamentare intangibile come quella di chiunque.
In ogni caso, come anticipato all'inizio, La Corte Costituzionale con sentenza 23 novembre 2007 n. 390 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dei commi 2°, 5° e 6° dell'art. 6 L. n. 140/2003, nella parte in cui stabilisce che la disciplina ivi prevista si applichi anche nei casi in cui le intercettazioni debbano essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dai membri del Parlamento, le cui conversazioni o comunicazioni sono state intercettate (per i riflessi della sentenza sul diritto di cronaca si veda l'articolo il duro colpo della Corte Costituzionale alla privacy dei parlamentari). In sostanza, con questa sentenza il gip non ha più bisogno di alcuna autorizzazione parlamentare per utilizzare le intercettazioni nei confronti dei terzi, anche se contengono conversazioni con parlamentari. L'autorizzazione parlamentare rimane necessaria per utilizzarle anche nei confronti dei parlamentari. Ma nell'eventualità in cui la camera di appartenenza neghi tale autorizzazione, non vi è più alcun obbligo di distruzione e il gip potrà liberamente utilizzarle nei confronti dei terzi.